Eutanasia
Sul problema dell'eutanasia ho trovato questo interessante articolo sul
sito della Chiesa Valdese
che condivido totalmente dall'inizio alla fine.
Questo è secondo me l'approccio corretto verso queste problematiche che toccano
i meandri più profondi dell'uomo.
Lo riporto qui nel mio piccolo spazio sperando che lo leggano più persone
possibili.
L'eutanasia inevasa
di Ermanno Genre
I casi Welby e Canova dimostrano come vi siano due metri e due misure
L’autodeterminazione della persona è un principio che se fosse rispettato, come
succede in molti paesi europei, non avremmo bisogno di una legge «ad hoc»
Un volto, in particolare, ha attirato la nostra attenzione in questi giorni: il
volto sofferente, provato e sfiduciato di Piergiorgio Welby, l’uomo che si è
rivolto al presidente della Repubblica con la richiesta di poter morire.
L’impatto sull’opinione pubblica è stato dirompente: il quotidiano La Repubblica
ha riportato i dati di una sua inchiesta interna (non scientificamente
elaborata) da cui risulta che il 95% dei lettori che hanno trasmesso la loro
opinione sarebbe favorevole a una legge sull’eutanasia, per consentire una
responsabile autodeterminazione, mentre soltanto il 5% sarebbe contrario, per i
troppi rischi e perché non rispetterebbe il diritto alla vita.
I mass media ci hanno però, a un giorno di distanza, presentato anche un altro
volto, quello di Enrico Canova, anch’egli paralizzato e dipendente da una
macchina che gli permette di vivere. Due persone, entrambe paralizzate, entrambe
sofferenti, ma che esprimono due opposte decisioni: l’uno vuole poter morire,
l’altro vuole continuare a vivere. Fra questi due casi c’è però – lo ha fatto
notare il giornalista Michele Serra – una grossa differenza: chi vuole morire
non può, si trova, oggettivamente, in balia di una situazione e di una legge che
lo costringono a vivere una vita che egli giudica insopportabile, non più
dignitosa. Non è questa una forma di accanimento terapeutico che tutti dicono di
voler combattere? C’è una possibilità concreta per accogliere la richiesta di
Welby senza ricorrere all’eutanasia?
È l’analisi di casi concreti come questi che ci aiuta a capire che la domanda di
eutanasia, che si vorrebbe negare e cancellare dalla realtà, per quanto limitata
essa sia, ha nome e cognome e attende una risposta umana concreta. Il problema
infatti non è Enrico Canova, che vuole continuare a vivere e che ha il diritto
riconosciuto di vivere fino all’ultimo respiro con la sua compagna, con il
figlio e i tre gatti nella sua casa di Milano, con le cure palliative a
domicilio. Il problema è Piergiorgio Welby, a cui neppure le cure palliative
rendono la vita accettabile e sopportabile e che ha, oltre a ciò, una legge
impietosa che gli si rivolta contro. Qui si tocca con mano che cosa significhi
il principio di autodeterminazione della persona, riconosciuto a Canova ma
negato a Welby. Se questo principio venisse applicato responsabilmente, non
sarebbe probabilmente necessaria una legge sull’eutanasia. Numerosi paesi
europei, infatti, non hanno una legge apposita sull’eutanasia, ma chi si trova
nella situazione di Welby non si vede costretto a scrivere al presidente della
Repubblica per trovare ascolto.
Sono precisamente i singoli casi di persone inguaribili e sofferenti che
dovrebbero indicare l’orizzonte delle norme che una società si dà per regolare
questi casi limite. L’esigenza di universalità di una norma va sempre
interpretata in relazione alla singolarità e unicità di ogni singola persona. Su
questo terreno concreto si situa la «saggezza pratica» capace di trovare i
comportamenti giusti e appropriati, oltre l’impersonalità della norma, come ci
ricorda Paul Ricoeur.
Con quale diritto una società libera e democratica, laica e multiconfessionale,
può ragionevolmente opporsi alla richiesta di Welby? Vi sono argomentazioni
umane che non siano una violenza nei confronti di chi dipende totalmente dalla
tecnologia medica e dalla volontà di altri? La convinzione cristiana (e non solo
cristiana) che la vita sia un dono di Dio, e che dunque debba fare «il suo corso
naturale e affidarsi alla volontà di Dio», come ha sostenuto ancora in questi
giorni il cardinale Barragàn, è un richiamo fuori dal seminato. Il ricorso alla
natura non funziona più in medicina ormai da molto tempo, è contraddetto in
tutti i campi (a cominciare dalla neonatologia). Certamente, la vita è un dono
di Dio, ma essendo un dono che Dio ci trasmette, ce lo comunica realmente,
completamente, ne rispondiamo responsabilmente davanti a lui e non a una
istituzione. Affermazioni religiose così formulate sono irresponsabili e
producono, contro ogni buona intenzione, delle forme di «accanimento
spirituale-pastorale» che hanno la pretesa di conoscere sempre quale sia il bene
dell’altro; non sapendo più ascoltare, si siedono sulla cattedra della propria
dottrina anziché accanto al letto del malato.
Per rispondere responsabilmente alla richiesta di Welby – a quel tipo di
richiesta e non a qualsiasi richiesta – uno Stato democratico deve darsi degli
strumenti legislativi, pur con tutte le cautele necessarie. La democrazia è vera
democrazia quando sa farsi carico dei problemi degli ultimi, in questo caso di
una minoranza sofferente. Richiedere una legge che regoli questa questione non è
come chiedere una legge contro l’evasione fiscale, significa chiedere una
piccola norma legislativa che si situi dalla parte di quella minoranza
sofferente che si trova oggi doppiamente minacciata: da una legge dello Stato e
da una legge morale e religiosa che ha perso per strada la visione della
misericordia di Dio. La richiesta di Welby deve trovare diritto di cittadinanza
in una democrazia, al di là dei nostri (del mio) personali punti di vista, delle
nostre appartenenze confessionali, degli schieramenti politici degli uni e degli
altri.
Iniziano in questi giorni le audizioni in vista dell’istituzione di una legge
per riconoscere il «testamento di vita» (biologico), che è un’altra questione,
da non confondere con l’eutanasia. Vi sono ben otto disegni di legge presentati
in Parlamento e mai discussi. Il caso Welby ha ora riaperto questo dossier. Il
consenso che sembra profilarsi all’orizzonte non potrà, in ogni caso – sarebbe
segno di un cinismo parlamentare preoccupante – «bypassare» la domanda di Welby,
che resta senza risposta. È urgente trovare quella saggezza pratica in cui
ognuno si possa riconoscere e che è espressa da un antico detto sapienziale
chiamato la regola d’oro, conosciuto nella letteratura antica sia nella sua
versione negativa, sia in quella positiva, quest’ultima accolta nei vangeli:
«Tutte le cose che volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro»
(Mt. 7, 12a). In questa luce il volto di chi soffre e chiede, nella sua totale
impotenza, di poter morire, rivendica priorità su ogni altra considerazione.
Tratto da Riforma del 6 ottobre 2006
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