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venerdì, ottobre 06, 2006

Eutanasia

Sul problema dell'eutanasia ho trovato questo interessante articolo sul sito della Chiesa Valdese che condivido totalmente dall'inizio alla fine.
Questo è secondo me l'approccio corretto verso queste problematiche che toccano i meandri più profondi dell'uomo.

Lo riporto qui nel mio piccolo spazio sperando che lo leggano più persone possibili.

L'eutanasia inevasa
di Ermanno Genre

I casi Welby e Canova dimostrano come vi siano due metri e due misure

L’autodeterminazione della persona è un principio che se fosse rispettato, come succede in molti paesi europei, non avremmo bisogno di una legge «ad hoc»

Un volto, in particolare, ha attirato la nostra attenzione in questi giorni: il volto sofferente, provato e sfiduciato di Piergiorgio Welby, l’uomo che si è rivolto al presidente della Repubblica con la richiesta di poter morire. L’impatto sull’opinione pubblica è stato dirompente: il quotidiano La Repubblica ha riportato i dati di una sua inchiesta interna (non scientificamente elaborata) da cui risulta che il 95% dei lettori che hanno trasmesso la loro opinione sarebbe favorevole a una legge sull’eutanasia, per consentire una responsabile autodeterminazione, mentre soltanto il 5% sarebbe contrario, per i troppi rischi e perché non rispetterebbe il diritto alla vita.
I mass media ci hanno però, a un giorno di distanza, presentato anche un altro volto, quello di Enrico Canova, anch’egli paralizzato e dipendente da una macchina che gli permette di vivere. Due persone, entrambe paralizzate, entrambe sofferenti, ma che esprimono due opposte decisioni: l’uno vuole poter morire, l’altro vuole continuare a vivere. Fra questi due casi c’è però – lo ha fatto notare il giornalista Michele Serra – una grossa differenza: chi vuole morire non può, si trova, oggettivamente, in balia di una situazione e di una legge che lo costringono a vivere una vita che egli giudica insopportabile, non più dignitosa. Non è questa una forma di accanimento terapeutico che tutti dicono di voler combattere? C’è una possibilità concreta per accogliere la richiesta di Welby senza ricorrere all’eutanasia?
È l’analisi di casi concreti come questi che ci aiuta a capire che la domanda di eutanasia, che si vorrebbe negare e cancellare dalla realtà, per quanto limitata essa sia, ha nome e cognome e attende una risposta umana concreta. Il problema infatti non è Enrico Canova, che vuole continuare a vivere e che ha il diritto riconosciuto di vivere fino all’ultimo respiro con la sua compagna, con il figlio e i tre gatti nella sua casa di Milano, con le cure palliative a domicilio. Il problema è Piergiorgio Welby, a cui neppure le cure palliative rendono la vita accettabile e sopportabile e che ha, oltre a ciò, una legge impietosa che gli si rivolta contro. Qui si tocca con mano che cosa significhi il principio di autodeterminazione della persona, riconosciuto a Canova ma negato a Welby. Se questo principio venisse applicato responsabilmente, non sarebbe probabilmente necessaria una legge sull’eutanasia. Numerosi paesi europei, infatti, non hanno una legge apposita sull’eutanasia, ma chi si trova nella situazione di Welby non si vede costretto a scrivere al presidente della Repubblica per trovare ascolto.

Sono precisamente i singoli casi di persone inguaribili e sofferenti che dovrebbero indicare l’orizzonte delle norme che una società si dà per regolare questi casi limite. L’esigenza di universalità di una norma va sempre interpretata in relazione alla singolarità e unicità di ogni singola persona. Su questo terreno concreto si situa la «saggezza pratica» capace di trovare i comportamenti giusti e appropriati, oltre l’impersonalità della norma, come ci ricorda Paul Ricoeur.
Con quale diritto una società libera e democratica, laica e multiconfessionale, può ragionevolmente opporsi alla richiesta di Welby? Vi sono argomentazioni umane che non siano una violenza nei confronti di chi dipende totalmente dalla tecnologia medica e dalla volontà di altri? La convinzione cristiana (e non solo cristiana) che la vita sia un dono di Dio, e che dunque debba fare «il suo corso naturale e affidarsi alla volontà di Dio», come ha sostenuto ancora in questi giorni il cardinale Barragàn, è un richiamo fuori dal seminato. Il ricorso alla natura non funziona più in medicina ormai da molto tempo, è contraddetto in tutti i campi (a cominciare dalla neonatologia). Certamente, la vita è un dono di Dio, ma essendo un dono che Dio ci trasmette, ce lo comunica realmente, completamente, ne rispondiamo responsabilmente davanti a lui e non a una istituzione. Affermazioni religiose così formulate sono irresponsabili e producono, contro ogni buona intenzione, delle forme di «accanimento spirituale-pastorale» che hanno la pretesa di conoscere sempre quale sia il bene dell’altro; non sapendo più ascoltare, si siedono sulla cattedra della propria dottrina anziché accanto al letto del malato.
Per rispondere responsabilmente alla richiesta di Welby – a quel tipo di richiesta e non a qualsiasi richiesta – uno Stato democratico deve darsi degli strumenti legislativi, pur con tutte le cautele necessarie. La democrazia è vera democrazia quando sa farsi carico dei problemi degli ultimi, in questo caso di una minoranza sofferente. Richiedere una legge che regoli questa questione non è come chiedere una legge contro l’evasione fiscale, significa chiedere una piccola norma legislativa che si situi dalla parte di quella minoranza sofferente che si trova oggi doppiamente minacciata: da una legge dello Stato e da una legge morale e religiosa che ha perso per strada la visione della misericordia di Dio. La richiesta di Welby deve trovare diritto di cittadinanza in una democrazia, al di là dei nostri (del mio) personali punti di vista, delle nostre appartenenze confessionali, degli schieramenti politici degli uni e degli altri.

Iniziano in questi giorni le audizioni in vista dell’istituzione di una legge per riconoscere il «testamento di vita» (biologico), che è un’altra questione, da non confondere con l’eutanasia. Vi sono ben otto disegni di legge presentati in Parlamento e mai discussi. Il caso Welby ha ora riaperto questo dossier. Il consenso che sembra profilarsi all’orizzonte non potrà, in ogni caso – sarebbe segno di un cinismo parlamentare preoccupante – «bypassare» la domanda di Welby, che resta senza risposta. È urgente trovare quella saggezza pratica in cui ognuno si possa riconoscere e che è espressa da un antico detto sapienziale chiamato la regola d’oro, conosciuto nella letteratura antica sia nella sua versione negativa, sia in quella positiva, quest’ultima accolta nei vangeli: «Tutte le cose che volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro» (Mt. 7, 12a). In questa luce il volto di chi soffre e chiede, nella sua totale impotenza, di poter morire, rivendica priorità su ogni altra considerazione.

Tratto da Riforma del 6 ottobre 2006